LA FORMAZIONE? LA FACCIO DA DICIOTTO ANNI!
Le rivendicazioni sportive del Cavaliere incompreso

"Sono 18 anni che faccio la formazione”: parola di Silvio Berlusconi. Alias invincibile cavaliere dell’armata rossonera, prossima ad un nuovo trionfo in campionato; alias premier di un Polo dell’ambiguità, alias proprietario di tre reti tv, e in ultimo, Presidente del Consiglio.
Che sappia comunicare, non c’è dubbio. Che abbia dove farlo, pure. Che lo faccia a sproposito, sorge un dubbio colorato di autenticità.
Ci risiamo. Con una battuta esternata con un sorriso non si sa quanto frutto di una doverosa ironia o quanto conseguenza di un chiacchierato tagliando estetico, il Premier, uomo dall’indubbio potere calamita ( o calamità ? ) delle attenzioni pubbliche e mediatiche è ritornato a riaprire il caso già battezzato come quello delle “due punte”, con il quale, lo ricorderete, era intervenuto per venti minuti in tv alla “Domenica Sportiva” per intimare al suo “dipendente” Ancelotti, allenatore del Milan, di schierare sempre due attaccanti in formazione, pena il licenziamento, scatenando così indignazioni sportive e politiche, per tal sconfinamento prolisso.
Ora, in occasione dell'inaugurazione di un nuovo padiglione del Policlinico S. Matteo a Pavia, Berlusconi rialza la polvere di quelle affermazioni post derby della “Madunina” ( Milan contro Inter) aggiungendone nuove al riguardo: “Sono 18 anni che faccio la formazione, detto le regole e compro i giocatori, eppure non si parla mai del Milan di Berlusconi.”. Il premier ha poi aggiunto: “Questa mattina ( ieri n.d.r ) mi hanno passato le cronache sportive: Sembra che io non esista, si parla solo del Milan di Sacchi, di Zaccheroni, di Ancelotti, ma i giornali non citano mai il Milan di Berlusconi.”.
Un atto di rivendicazione? Perdiana. Che gli si innalzi un busto, a San Siro. Del resto, lui è un vincente, e siccome il Milan continua a vincere, beh proprio non si può lasciare ad altri il merito di un successo “elettorale”.
Vuol riprendersi il merito, ora, il Cavaliere. Non c’è niente di male, se questo non leda la professionalità, la competenza e gli sforzi sul campo di chi, ogni santo giorno, si suda un meritato trionfo, a differenza di chi, siccome è uno e trino, ogni santo giorno cerca (e trova, in quanto tale) modi, tempi, campi e stratagemmi per far parlare di se. In bene, ovviamente. Si sente già profumo di voti, sai com’è. Che sia una rivendicazione patronale, nel desideroso tentativo di stabilire che è lui quello che paga e avvalora con uno spogliatoio ricco di campioni un cammino di successi non si discute. Ma sicuramente non si può evitare di pensare che, conscio della precedente ulteriore ondata di popolarità, il già celeberrimo Premier abbia inteso sfruttare il momento catartico del suo Milan per una nuova strumentalizzazione politica. Un po’ come gli americani che ingolfano di film bellici le sale di mezzo mondo, a dimostrazione di grandezza. Ovviamente.
In realtà questa battuta un po’ seria un po’ sarcastica, fatta magari per non permettere che qualcuno si dimentichi da dove ha avuto origine il tutto, spinge a dubitare dell’assenza di venature politiche ancorché divine.

Tralasciando il sarcasmo, tuttavia, fa specie pensare come ben quattro dei mister che più hanno fatto la storia recente del nostro calcio dando lustro all’immagine spesso china dell’Italia all’estero, siano stati muti esecutori di direttive del premier; che essendo il Capo di noi tutti ed essendo questa, oltre che la Repubblica delle Banane lo stato in cui albergano sessanta milioni di commissari tecnici, può ben essere presa a mò di barzelletta. Anche queste non assenti dal prontuario del Premier Perfetto.
Berlusconi, che pure aveva spinto alle dimissioni Zoff ( a seguito di un Europeo e dichiarazioni roventi con cui il Cavaliere affermava l’incompetenza del mister, sottolineando quali fossero le sue mosse tattiche errate al suono del gettonato “Metti Gattuso!” ) ora potrebbe, non sia mai, far inalberare pure uno stinco di santo come Ancelotti, che pure di bocconi amari ne ha dovuti trangugiare, nella sua carriera. E adesso che vive il momento più alto del suo percorso, ora che si sta togliendo tanti di quei sassolini dalle scarpe contro rivali ( la Juventus ) che l’avevano reso reo di essere arrivato solo secondo in un campionato stravinto dalla Roma, potrebbe sentirsi derubato di una gloria che è giusto lasciargli godere.
Come è giusto che il mitico Milan di Sacchi, quello degli olandesi, sia ricordato come quello, sì, finanziato da un imprenditore dall’ipnotico sorriso, ma schierato da un mister che sconvolse i moduli all’italiana. Il mister Capello stesso, portatore di un ciclo di vittorie sconfinate e perfino Zaccheroni, ora alla guida di una Inter alla deriva, vincitore di uno scudetto e cacciato perché sinistromane, potrebbero soffrire di incubi e chiedersi, di notte: “Ma allora non sono io ad aver vinto?”.
Se lui si risente del fatto che nei giornali non c’è traccia de “Il Milan di Berlusconi”, lasciateci essere perplessi del fatto che questo risentimento nasconda la stessa alienazione di cui il Premier ha dato modo di essere dotato non meno di qualche settimana fa. Perché non restare dietro le quinte, per una volta? E godere di un bel Milan di cui pure è co-protagonista, ma non un prim’attore bisognoso di riflettori, quando non di subliminali messaggi di potenza politica e mediatica. Magari Ancelotti non avrebbe vinto tanto, senza i soldi del suo presidente. Ma neanche questo, senza il fiuto e la competenza del mister. E’ un po’ come aver di fronte un editore che si vuol appropriare non già degli introiti, ma del vanto di aver confezionato un bel libro. Solo che, quello stesso libro, non è lui che l’ha scritto, dal principio alla fine.
Come finirà questa storia? Magari all’Italiana. Del resto l’Italia ha in seno la culla delle fedi. E se c’è fiducia in un monoteismo, speriamo che non si arrivi al contenzioso sul creatore, laddove, in un’epoca in cui si vuol perfino clonare il Cristo, non si instauri il dubbio che ciò sia inutile perché è ancora vivo.

Daniele Silvestri