BUGIE E SANGUE: LE DUE MATRICI DELL’ATTUALE POLITICA DI DESTRA

L’Italia delle bandane non fa marcia indietro, nonostante le morti sulla fedeltà alle politiche imperialiste di Bush, ora attaccato dal nuovo film di Moore, Fahrenheit 9/11

Non contenta di essere una Repubblica di Banane, ora l’Italia è il paese delle bandane. Ma, a quanto pare, nemmeno gli americani scherzano: la loro, sembra essere una democrazia delle panzane. Eventi in successione temporale quasi asfissiante, si mischiano tra loro in questa rovente estate, dandoci sempre più la sensazione di vivere all’interno di un tumultuoso flagello globale, tra sangue e tragedie, mal gestito da pochi condottieri svolazzanti sulle ali del vento di una politica di oligarchie affaristiche; e quaggiù, all’ombra degli ombrelloni, ci si domanda cosa sia passato per la testa del premier, nel momento in cui decise di indossare una bandana, oltre al gusto di far parlare di sé.
Ma anziché parlare, tanto per farlo, di faccende effimere come questa, non sarebbe meglio chiedersi cosa stesse pensando il Capo del Governo nel momento in cui giurava fedeltà assoluta alla politica neo-imperialista e filo-religiosa del signor Bush? Paghiamo ancora la storica liberazione, o siamo ad un passo successivo, quello per cui la genesi di una politica del conservatorismo economico-ideologico dalla matrice assolutista, ha diretto l’amministrazione Berlusconi ad un inasprimento del tutto illiberale delle linee guida di una destra napoleonica?
Non siamo in possesso delle ragioni ultime per le quali il cavaliere “bandanato” abbia seguito sempre e comunque il suo fido amico George, in questa sanguinolenta, atroce, e inutile guerra irachena. Forse le logiche di questa sorta di nuova linea di geo-politica internazionale, volta a riassettare gli sbilanciamenti medio-orientali sulla base di valori e ideologie prepotenti e utilitaristiche,sono al di fuori della nostra portata di elettori. Ma certo, poiché a pensar male spesso si acchiappa, la domanda è: sarebbe diverso oggi se, una sciagura come quella capitata ad Enzo Baldoni, ucciso vergognosamente, allo scadere dell’ultimatum, dalla frangia armata dell’”Esercito islamico dell’Iraq”, fosse capitata in campagna elettorale?
Noi lettori di gossip, telespettatori di realtà patinate dal monopolio, non possiamo sapere se la crudeltà di questo esercito armato (anticipata dal caso del rapimento di un cittadino filippino, poi liberato dopo l’ottenimento del ritiro dei 51 soldati del governo di Manila), motivata da ragioni di caratura strettamente politica e indirizzata verso vere e proprie strategie militari atte ad abbattere i cosiddetti “anelli deboli” del contingente militare guidato dai titolati di Washington e Londra, avrebbe vinto se avesse colpito poco più di due mesi fa. L’unico dato di fatto è che Baldoni, dopo Quattrocchi, e dopo innumerevoli e anonimi soldati di questa e quell’altra nazionalità hanno perso la vita per una ragion di stato che non ci appartiene, e non ci rappresenta.
Anche qualora ci fossero state, infatti, ragioni sufficientemente capaci di avvalorare la scesa in guerra, finanche meno eclatanti delle colossali messinscene di Bush & co, molti avrebbero avuto la forza e la dignità di dire no al sangue, e di urlare forte la ragione della pace, e di una risoluzione diversa da quella delle armi, fondata sulla convivenza, sul dialogo, sulla coesione.
E nelle stesse ore in cui, annunciata al mondo, la fine di Enzo Baldoni faceva impallidire il mondo civile, lo show doveva andare avanti; come l’estate, come il gioco, come le blindatissime olimpiadi che, ironia del destino, mettevano di fronte la nazionale di calcio italiana e quella irachena, in un clima surreale, come lo è quello della cappa decisionale che, dall’altro, ci sovrasta, come se tutti fossimo ignavi di coscienza.
Le nostre, invece, sono coscienze umanitarie, di quelle che non resteranno impassibili di fronte alla commercializzazione delle verità (vere o presunte) della guerra in Iraq, e delle motivazioni della stessa: il mondo attende (e in parte già applaude) il film-documentario di Michael Moore, il dibattuto e discusso “Fahrenheit 9/11”.
La pellicola, vincitrice della palma d’oro a Cannes, premiata da una giuria presieduta da Quentin Tarantino (americano “apolitico”, come si è definito), prova a scavare per 122 minuti con un ritmo rapido (e per alcuni fin troppo sfrontato) sui misfatti dell’amministrazione Bush, sull’incapacità dello stesso, e sulle vergognose verità nascoste dietro le bugie della guerra totale al terrorismo.
Il rischio è quello di fomentare le polemiche tra le fazioni, d’incrementare la popolarità riflessa del leader repubblicano, a pochi mesi dalle presidenziali, e concludersi con un nulla di fatto. Le rivelazioni del film, infatti (elezioni “truccate”, strette di mano amichevoli con i Taleban, 25 membri della famiglia di Bin Laden, presenti negli Usa quell’11 Settembre, ma spediti su di un aereo il più velocemente possibile prima che l’FBI li interrogasse; la guerra in Iraq decisa molto prima del disastro delle Twin Towers; le inesistenti armi di distruzione di massa, pari all’inesistente legame tra Bin Laden e il deposto dittatore Saddam Hussein, snidato quasi per un obbligo, quasi un dovere di famiglia del figlio d’arte Bush) non sembrerebbero intaccare la leadership di George W., essendo, per altro, veleggiate sulle onde del “si dice che”, da ormai troppo tempo. Alcuni ritengono che il film, in uscita in Italia il 27 Agosto, in 280 sale, abbia aperto più dubbi di quanti ne abbia risolti, e che non tutto è risalibile ad una politica imperialista basata sulle brame petrolifere e imprenditoriali. Si lamenta, inoltre, il mancato approfondimento della tesi per la quale l’amministrazione americana intende saturare il mercato dei concorrenti interni ed esterni, allo scopo di far passare come unica la sua linea di governo religioso-conservatrice, tramite un’esasperazione del pericolo “terrorismo”, che nelle ideologie delle destre americane, è atta a persuadere le masse dell’ inevitabilità della prevenzione bellica.
Ma al di là delle linee di pensiero, Fahrenheit 9/11, raffigurazione in celluloide di quelle che dovrebbero essere encicliche dall’indice puntato contro la politica di Bush rischia, tuttavia, di finire per restare ciò che in effetti è: solo un film. Proprio quello che meno vorrebbe risultare secondo le intenzioni degli autori. In una fase di radicalizzazione delle battaglie, nella quale, morti alla mano, è oltremodo evidente come la vocazione al “chiodo schiaccia chiodo”, in fondo, non faccia che sostituire un fondamentalismo all’altro, o di lasciare il mondo, e noi tutti, impallati in questa altalena di valutazioni, la cui distanza, troppo spesso, è colmata dalla lunghezza delle scie di sangue.

G.T.