CAROVITA, INFLAZIONE, RINCARI: L'ITALIA DEI POVERI

Di fronte ad una Finanziaria finalizzata al recupero dei voti piuttosto che della stabilità economica, la stasi di un paese in miseria che fatica a sopravvivere e continua a indebitarsi.

di Daniele Silvestri

Senza il becco di un quattrino; in rosso, o in bolletta. Che dir si voglia, l’Italia ha fatto crac.
In seguito alle ultime operazioni chirurgiche con cui il Governo tenta di recidere le stanche membra della moribonda finanza italiana, attraverso rimpasti e diatribe, sfogliando gli angoscianti dati del continuo impoverimento, dell’insostenibile caro-vita da fronteggiare e di un’assidua inflazione che ha sbriciolato i portafogli tricolori, agli italiani non resta che piangere. Non hanno altro. Ma c’è, addirittura, chi si lagna più forte: “Senza Irpef perdiamo la faccia. Guardate i sondaggi: siamo al minimo storico, la Cdl non è mai stata così sotto. Forza Italia perde 6/8 punti, e l’Ulivo è al 50%”; parola di Silvio Berlusconi.
Persuaso che la sua fumosa politica di riassetto dei conti attraverso anomale distribuzioni di liquidità inesistenti per il finanziamento dei tagli dell’Irpef (osteggiati dal leader di An, a cui vengono offerti “olianti” cambi in corsa e paventate minacce d’elezioni con una Cdl “scorporata”, nel caso di un non pieno accordo con la linea scelta dal leader maximo) possa consentirgli uno strategico ripristino dei consensi elettorali perduti, il premier insiste risoluto per gli sgravi. Ma a noi, piuttosto, interessa sapere quando si giungerà ad un’equilibratura delle spese; ad un risanamento delle perdite; e ad una vera crescita economica del paese, che, di là dalle farsesche pantomime, è in ginocchio; se la matematica non è un’opinione e nemmeno un gioco di prestigio.
Tra manovre indulgenti con l’elettorato alto e cartolarizzazioni immobiliari dalle entrate insipide, si è accesa una rottura all’interno della maggioranza per loro stessa incapacità di tacere le scomode verità finanziarie, volute per salvare la faccia alle promesse del marinaio bandanato.
Dei 24 miliardi di euro che compongono una Finanziaria scialba e discussa, molti rischiano di “evaporare” alla scoperta che i fondi acciuffati col faticoso taglio dell’Ire destinati (su pressioni di An e Udc) a famiglie e imprese sarebbero stati 3,4 anziché 6,5.
Forse per comprendere la “finanza creativa” serve agli italiani, oggi, un mate-mago esperto di manipolazione genetica,. Ma in verità c’è poco da elucubrare: i conti sono a disposizione di chiunque voglia analizzarli. E sono spaventosi: all’appello manca un saldo da finanziare pari a 24,8 miliardi e la nuova Finanziaria non è certo un capolavoro del risanamento. Certo, sono previsti interventi, come le revisioni per autonomi e professionisti allo scopo di pescare 3 miliardi di euro, o il blocco delle addizionali Irpef e Irap prorogato per 2 anni, e la possibilità di affittare beni d’arte dello Stato (dal valore di circa 3,7 miliardi) con obbligo di una restaurazione il cui costo andrà in deduzione all’affitto; e ancora, l’incremento del 10% delle sanzioni per i fumatori e fantomatiche entrate aleatorie sulla riforma del Lotto, con l’introduzione, poi sospesa, dell’undicesima ruota non legata a una città. Ancora in bilico invece, la questione degli altri rincari: quelli dell’assicurazione sugli eventi catastrofici in casa, dei pedaggi Anas, e della tassa sui rifiuti (pari rispettivamente a 150, 150 e 50 euro), più altri aumenti “minori” (tariffe idriche, Ici, e altro).
Ma il vero caos grava attorno al tema degli sgravi fiscali, per la cui copertura sono state avanzate delle pittoresche ipotesti come quella del taglio del 2% del personale scolastico che ha fatto inviperire la Moratti, o quello dei fondi per gli investimenti nel mezzogiorno, che ha trovato in Ciampi un forte oppositore. Come l’idea che ha scatenato un putiferio nella stessa Cdl, avanzata da Berlusconi, sul taglio delle finestre delle pensioni e il blocco dell’aumento dei salari per gli statali già prevista, invece, al 3,7%.
Manovre che hanno prodotto il forte sdegno di Siniscalco (“Berlusconi è orientato a sforare il 3%? Se così, si trovino un altro ministro” ha detto, poiché, chiaramente la Commissione Europea non è affatto intenzionata a “regali” di questo tipo a paesi indebitati come l’Italia).
Lo strappo con Fini ha, invece, le sue radici nei dati inconfutabili: ad un paese al terzo posto nel debito pubblico, dopo i tagli alla spesa corrente col tetto al 2%, non si promette l’oro, se non c’è. Ma se c’è l’ordine supremo del taglio ulteriore della spesa per ragioni “alte”, e non si vuol toccare né welfare né impiego pubblico, inevitabile le risorse svaniscono. E a nulla serve spiattellare la querelle ai media: non si tira avanti con le chimere dei tagli Irpef, se questi vanno finanziati in deficit (mancando i fondi) per parificare imprese e privati.
L’eventuale riassetto delle aliquote fiscali (rispettivamente al 23% per i redditi fino a 23 mila euro, al 33% per i guadagni fino a 33 mila euro e al 39% per quelli superiori ai 33 mila euro, con una riduzione di ben 4 punti, dal 43 al 39 che produrrà un risparmio di circa 500milioni di euro per i redditi “benestanti”), non creerà peraltro sostanziali benefici al paese ed alle buste paga delle famiglie medie italiane che continueranno ad essere depredate, con un consequenziale, ulteriore calo della già assente domanda di consumi, a fronte di un’offerta congelata, ed una vertiginosa tendenza al prestito: il che vuol dire indebitamento da medio - lungo periodo, per i cittadini. I quali, per giunta, non investirebbero, bensì utilizzerebbero l’introito sottoforma di risparmio o di copertura delle uscite già dilazionate. A fronte dell’erosione totale dei guadagni per via delle spese di sussistenza, si registra infatti la propensione degli italiani all’acquisto in leasing, in mancanza di altri liquidi, con un ammontare oscillante tra il 10 e il 30% dell’incidenza dei redditi mensili. Ciò però, produce un insostenibile aumento delle perdite dei bilanci familiari, confermato dagli ultimi dati relativi al boom di insolventi, che ha visto nella sola Milano l’aumento dei decreti ingiuntivi di pignoramento al 225%; se si tengono in considerazione poi gli aumenti al 35% dal rapporto tra reddito disponibile e prestiti a causa di una perdita di potere d’acquisto spaventosa, per parare il quale debito medio è salito, in poco più di cinque anni, a 255 miliardi (pari ad un aumento del 112%), è ovvio constatare che nessun artificio fiscale servirà a sminuire il problema del caro-vita e a dilatare ad altri le responsabilità del disastro dell’economia italiana.
Tutti sanno come stanno le cose perché questa situazione la vivono ogni giorno, in una realtà in cui si è arrivati all’insopportabile scelta di quale bolletta pagare, e quale no. Vogliamo, dunque, pensare al paese?
La politica del Governo Berlusconi si è rivelata fino ad oggi un vero disastro per gli italiani, che si sono visti buggerare da promesse elettorali non mantenute, nonché costretti a mettere mano al portafogli per affrontare l’intollerabile crescita dei prezzi, ammantata dall’introduzione dell’Euro, ma per niente calmierata da una sistema salariale che la potesse contrastare e per di più sostenuta dall’inasprimento di talune politiche economiche caracollanti, nonché da alcuni dati Istat che ci parlano di un abbattimento del carovita (il più basso dal settembre 1999, dicono!), di retribuzioni lorde cresciute del 3%, tasso di occupazione in aumento e di un’inflazione in discesa dal 2,3% al 2,1 (con la perdita di due punti percentuali) piuttosto che un aumento dello 0,2 che alcuni studi alternativi ritengono ci sia stato. Differenti dati analitici lasciano infatti supporre si tratti di un calo “limato” (con un balletto consueto: già nel 2003 si parlava di inflazione mediamente stabile attorno al 2,7%, e non del 2,9% indicato dagli enti dei consumatori), nei numeri della città campione e delle tendenze degli acquisti. Ma i cittadini in realtà hanno poco o nulla da spendere, a causa delle errate politiche economiche colpevoli del crollo del potere d’acquisto.
Non deve trarre in inganno il lancio del “congelamento” dei prezzi per alcuni prodotti a marchio della grande distribuzione. Essi non rappresentano che il 15-18 per cento del totale, e il blocco, di fatto, impedisce una diminuzione dei listini per rispondere piuttosto a opportunistiche logiche di guadagno: se, difatti, a fronte di un calo della domanda dovrebbe corrispondere un calo dei prezzi, in verità lo “stop” al rincaro non consente un risparmio concreto, ma solo la spalmatura nel mucchio di potenziali nuovi clienti, con presumibili equipollenti entrate, tramite strategie estemporanee quali promozioni e offerte mirate alla conquista di nuove porzioni di cittadini attratti dal cosiddetto “fumo negli occhi”. E intanto, gli italiani sono allo stremo.
Oltre 30 milioni di cittadini-consumatori hanno partecipato al quarto “sciopero della spesa” il 16 settembre scorso, contro i rincari dei prodotti alimentari, petroliferi e delle tariffe. E dall’ultimo “paniere alternativo” presentato il 9 Novembre dall’Eurispes si evince quanto sia divenuto progressivamente radicato lo stato di povertà del paese, che ha spinto la famiglia media italiana ad una vera e propria rovina, marcata da un’austerità forzata, dal sapore (amaro, verrebbe da dire) d’un dopoguerra. Due figli mediamente a carico, un sostentamento economico fondato unicamente su salari e stipendi insufficienti per via della perdita del potere d’acquisto ed erosi dai costi-consumi cresciuti a dismisura a fronte di un’inflazione galoppante; la nuova famiglia media, ad oggi, deve fare i “conti” con conti perennemente in passivo, e un budget ridotto all’osso che non consente loro, molto spesso, di “arrivare alla fine del mese”.
Non solo. Si bada al sodo, in Italia. Una povertà di fatto lontana dalle ordinarie rilevazioni Istat, e che costringe la gente a rinunciare al “più”: al teatro, al cinema, alla discoteca, e quant’altro; l’intero stipendio è attualmente depauperato dalle spese alimentari (la cui incidenza nei redditi medi sarebbe del 27% contro il 16% del paniere ufficiale Istat), dall’affitto (con una ricaduta del 27% al posto del dato ufficiale del 9%) e dalle varie bollette per la fornitura dei servizi.
La linea di pensiero dei tecnici Eurispes è che con i soli redditi da lavoro, gli italiani nuoteranno nella povertà ancora a lungo. Senza né crediti né risparmio, su cui poter fare affidamento nei momenti di “magra, si deduce che le due forbici principali dei preoccupanti tagli pecuniari, l’aumento dei prezzi e la riduzione dei redditi familiari, hanno finito per tranciare in due la vita economica degli italiani. Da una parte la sopravvivenza, dall’altra il benessere.
Il paniere Eurispes, “ideale ma molto rappresentativo in termini dinamici” (si calcola, infatti, che la percentuale della tipologia di composizione familiare presa in considerazione come “media” dallo studio, partendo da una base del 33% è destinata ad aumentare in tempi brevi) stende un bilancio delle necessità materiali dei cittadini italiani prendendo in considerazione nove aggregati di spesa su cui gravitano le principali “uscite” economiche dei privati: abbigliamento (maschile, femminile, infantile); scuola; affitto e consumi domestici correnti; beni durevoli e semidurevoli per la casa; sanità e igiene; svaghi e vacanze; alimentari, bevande e tabacco.
Dati alla mano, a pesare di più sui bilanci familiari sono la casa e le spese alimentari (come detto, entrambe le variabili al 27%) l’abbigliamento (10,5%) e i trasporti (8,70%); disparità coi dati Istat, per i quali, oltre alla spesa alimentare (16,29%), vede al 13,42% i trasporti e sorprendentemente al 10,60% i servizi per la casa.
Non rientrano nel computo alcuni servizi quali i garage, il noleggio di automobili, taxi, servizi per animali, sport, e hobby vari (parco-giochi, vacanze brevi, lotterie, scommesse, alberghi, libri, dischi, servizi bancari) nonché “alcuni consumi, elencati nel Paniere Istat, come bar, ristoranti e cinema che sono poco o nulla presenti in quello Eurispes, perché la nostra famiglia media può permetterseli molto di rado”.
Sui rincari, ci sono altri fattori da prendere in considerazione. Secondo una stima di Fipe Confcommercio, 11 milioni di italiani pranzano in mense, bar e ristoranti, per un giro d’affari di 46 miliardi l’anno; ma pranzare fuori oggi costa ben l’83% in più rispetto al 2001, secondo Intesaconsumatori, alla quale si uniscono Adoc, Adusbef, Codacons e Federconsumatori nel denunciare questi rincari, frutto dell’avvento dell’euro che, come tutti sanno, ha prodotto una sproporzionata lievitazione dei prezzi di tutti i settori; su tutti, quello alimentare.
Ne consegue, su tutto, che la fiducia degli italiani è in perenne calo dal 2001, anno d’insediamento del centro-destra. Secondo le ultime analisi, il 20% delle famiglie si trova in situazioni economiche precarie; il 13% ha dovuto utilizzare i risparmi accumulati in passato per spese correnti, dissipando – non per sua volontà – possibili fondi per futuri investimenti, e il 4% è dovuto addirittura ricorrere a prestiti (4%) comprare generi alimentari. Il dato si fa più grave: il 48% degli italiani è stato costretto dalle incombenze a consumare tutto il proprio reddito e solo il 34% afferma di essere riuscito a mettere da parte qualcosa; un decremento di 4 punti percentuali rispetto al 2003 (era il 47% nel 2002 e il 48% nel 2001, con un calo del 10% complessivo in tre anni).
E il futuro? Il quadro della situazione del risparmio in Italia e' dipinto dall'Acri, l'associazione che riunisce le fondazioni bancarie e le case di risparmio, in occasione della presentazione della ottantesima giornata del risparmio: tra le famiglie "in discesa", quei nuclei cioè che perdono man mano solidità e potere d'acquisto ci sono le classi in precedenza più agiate,a conferma processo di “l'impoverimento dei ceti medi”. Percezione negativa, questa, secondo L’Acri, che si rifletterà sul futuro delle giovani generazioni che “avranno una situazione meno sicura di quella dei loro padri”.
Tante, invece, secondo le associazioni dei consumatori, tra i quali il Codacons e Intesaconsumatori, le possibili soluzioni della crisi: spalmatura in ribasso dei prezzi del 25-30%, una politica fattiva di diminuzione delle tasse onde fornire alla grande massa di lavoratori una capacità di spesa volta al rilancio dei consumi, vera anima di un’economia stagnante. E ancora, un bonus fiscale di 1.500 euro per le famiglie sotto i 15.000 euro, (secondo gli esperti ottenibili grazie proventi della privatizzazione Enel e di altri istituti); una rapida approvazione della legge sul risparmio con il ripristino del reato del falso in bilancio, dopo la pronuncia europea che ne ha bocciato la depenalizzazione; manovre volte al ripristino di una fattiva dinamica di concorrenza del mercato immobilizzato da monopoli, oligopoli e cartelli; e, nel breve, una liberalizzazione degli sconti, slegandoli ad inutili limiti temporali o peggio ancora a blocchi fittizi, il cui unico dato è il placcaggio, non la risoluzione dei consumi zero.