STORIE DI ORDINARIA INDECENZA

Attenzione alla sottile striscia che distingue il mondo reale da quello virtuale

di Wanda Montanelli

E’ il taglio da macellaio il veicolo più ricercato tra immagini proposte nell’era multimediale. Chiudere gli occhi per evitarsi la brutalità delle diverse forme di violenza gratuita è un’azione riflessa che ormai pochi mettono in atto. La maggioranza delle persone osserva il truculento impegno a lacerare carni o a produrre ematomi, con compiacimento, ribrezzo, o registrando un ignobile brivido di piacere
L’attenzione alla carne umana, contrapposta alla tacitazione delle istanze dello spirito è ciò che ci contraddistingue oggi nella produzione globale di messaggi di vario genere.
Il corpo umano sezionato, ridotto in brandelli, osservato al microscopio per documentari speudo-scientifici, ingrandito nell’esposizione delle sofferenze e delle risultanze in ogni intervento di chirurgia plastica (“chi bello vuole apparire molto deve soffrire” sembra essere il tema di talune circostanziate descrizioni in sala operatoria) sembra l’unico soggetto degno d’interesse. Il sangue, seduttore e veicolo di emozioni forti fluttua abbondante negli schermi di cinema e tv. Liquido rosso che zampilla, come elemento irrinunciabile, sempre più spesso anche dal corpo di protagonisti di gialli o testi noir. In questi giorni a Roma Joe Lansdale, autore di noir famosi come Mucho Mojo, Bad Chili, presenta in Italia l’ultimo romanzo La sottile linea scura; spiega che le sue storie sono invenzioni che non hanno alcuna attinenza con la realtà, e aggiunge che il tema dominante è la morte o la negazione della stessa, come in Bubba Ho-Tep, in cui si decide di rendere immortale Elvis Presley, stabilendo che è vivo e che non si accetta il dato di fatto della sua mediocre scomparsa avvenuta mentre si trovava alla toilette.
Su questo aspetto gioca la concezione di onnipotenza che ci deriva dalla moderna rappresentazione di noi stessi come “creatori” che in molti appare radicata, e che esiste non solo in chi si occupa di divulgazione di notizie e immagini, ma in ogni essere umano cresciuto a pane e play station.
Questa macchina diabolica, ci permette di entrare in una dimensione nella quale assorbendo le forme mentali del cinismo indotto, ognuno di noi può inventare la vita o dare la morte. Che l’eroe muoia o viva dipende dal tempo impiegato nella pressione sul telecomando. La morte non è vera e può considerarsi momentanea. Basta, infatti, un nuovo clic sul tasto d’accensione e i morti resuscitano per produrre nuove avventure.
L’assuefazione a decessi più o meno violenti, deriva anche da cinema e tv. E nonostante l’inesorabile condanna fatta da Karl Popper contro i produttori di televisione, essa è aumentata parallelamente alla pubblicazione di approfonditi studi su carta stampata e molteplici conferenze di esperti del tema.
Non c’è niente da fare. L’immaginazione degli uomini futuri sarà sempre più collegata alle macchine produttrici di un mondo virtuale che ha la pretesa di darci emozioni, felicità, sesso, appagamento affettivo. Vorremo bene a ologrammi presenti in casa nostra allorché un proiettore sofisticato ce li farà vedere in salotto o in cucina fintamente intenti a preparare due uova al tegamino. Questo acquieterà in maniera malinconica il nostro bisogno di affetto.
Potremo accendere la misera attrezzatura che ci permetterà di vivere un’avventura di sesso con uomini o donne che esisteranno solo nella nostra fantasia. Inventati, cioè, come la nostra vita sempre più finta e immaginaria, sempre più simile alla morte.
L’indecenza in tutto questo è nel sottile passaggio dal reale al virtuale, nell’istmo che ci porta dal mondo vero a quello fasullo, che diverrà sempre più sottile fino ad assumere la consistenza di un capello. Allora sarà grave, come è grave chi già oggi, affetto dall’impossibilità di distinguere, pensa che sia possibile uccidere e riprodurre la vita perché la morte alla quale l’hanno abituato è stata migliaia di volte vista e vissuta sullo schermo. Costui scambierà il telecomando con la possibilità di accendere una macchina per ridare l’esistenza a qualcuno morto nel film, o nel gioco multimediale. Il capello sarà sempre più sottile fino a rompersi e confondere i due mondi, quello della vita vera e quello della vita virtuale cioè la morte.
C’è una domanda che mi torna alla mente spesso. E’ più abile un concorrente di partite multimediali giocate ai tasti di un telecomando o quello impegnato a fare la gara delle “cinque pietre?”.
Una sfida estiva di questi giorni tra adulti e bambini, ha visto perdenti gli abilissimi giocatori di play station i quali hanno dimostrato quasi nessun’abilità oculo-manuale perdendo la gara. Ciò a dire che il finto, il virtuale si pone come ostacolo al vero sviluppo dei cinque sensi e che l’input che produce l’interazione nello schermo con l’eroe, espresso attraverso l’azione di un dito su un tasto, impedisce di fatto che si sviluppino e si coordino i movimenti di cinque dita con quello di braccio ed avambraccio, insieme alla posizione armonica di tutto il corpo e alla contemporanea sincronizzazione con lo sguardo. Tutte azioni necessarie allo stupido gioco delle cinque pietre. Forse alcuni di voi ricordano che il gioco consiste nel lancio in alto di una piccola pietra e nella raccolta di uno, poi due, tre, quattro sassolini posizionati a terra prima che la pietruzza lanciata ricada giù.
Un banale gioco che è esercizio, coordinamento muscolare, occasione di vita all’aria aperta e soprattutto gusto di una piccola esperienza di vita reale dove i sassi sono sassi e i muscoli sono vero corpo di chi è impegnato nella sfida, e le voci sono autentiche rivelazioni di presenze reali. Le domande hanno risposte immediate, e il confronto è tra vivi.