di Daniele Silvestri
"L’Europa
non è solo in crisi. Ma è in una crisi profonda". E’
una drammatica sentenza, quella che si lascia scappare, disilluso, il presidente
di turno europeo, il lussemburghese Juncker, a seguito del doppio fallimento
per l’'Ue, nel giro di appena 48 ore.
L’Europa dalle mille ambizioni ha prima messo da parte la Costituzione
a tempo indeterminato, e poi ha ufficialmente sentenziato di non poter giungere
ad un accordo sul bilancio comunitario. Saltato il vertice e un’auspicabile
intesa che avrebbe lenito le recenti batoste referendarie in Francia e Olanda,
l’Ue sentenzia così una profonda spaccatura comunitaria capace
di minare seriamente le strutture dei disegni di un europeismo più costruttivo,
nelle intenzioni.
"Eravamo vicinissimi all'accordo", ha spiegato Juncker, in una conferenza
stampa conclusiva dei lavori, tenuta all’una del mattino, "ma alcune
delegazioni non avevano la volontà di chiudere", ha precisato, senza
voler fare nomi.
Tuttavia, appare chiaro a chi collegare quest’ ostruzionismo. Si dice
il peccato, ma non il peccatore, certo, eppure non è un segreto il fatto
che ad assumersi la responsabilità di aver interrotto i negoziati, funzionali
ad un accordo sul bilancio, sia stato il premier britannico Tony Blair; che
ha rifiutato i cosiddetti "ritocchi allo sconto". Ovvero il rimborso,
pari a 5,3 miliari di euro per quest’anno (e in fase di crescita) che
la Gran Bretagna riceve dall’Unione Europea dal 1984; somma che, chi più
chi meno, i premier europei vagliano come un esborso troppo salato almeno quanto
anacronistico.
Eppure Tony Blair non sarebbe l’unico protagonista di quest’aborto
di bilancio. Ad esempio la Svezia e l’Olanda hanno chiesto un ridimensionamento
dei propri contributi alle casse dell’Unione. Tuttavia, senza l’ostinata
resistenza del governo di Londra, quelle dei due paesi nord-europei non sarebbero
parse come posizioni dal recupero complicato.
L’atmosfera del vertice aveva registrato fin dall’inizio della giornata
un elevato tasso di nervosismo; già minato dallo snervante e inconcludente
dibattito del giorno prima sulla continuazione del processo di ratifica. Il
meeting si era arenato intorno alle 23, quando i capi di Stato e di governo
sono tornati in riunione plenaria per contare ben cinque voti contrari all’ultima
bozza di compromesso, messa in piedi dalla Presidenza. All’atteggiamento
dei britannici, messo in preventivo insieme a quello di olandesi e svedesi,
si sono aggiunti i voti contrari di Spagna e Finlandia. Il colpo di scena è
avvenuto quando, in presenza di un tale disaccordo, i dieci nuovi paesi dell’Unione,
con la Polonia in testa, hanno inaspettatamente dichiarato di essere pronti
a ridurre i loro introiti dalle casse comunitarie, purché si fosse arrivarti
ad un accordo. A quel punto, la stroncatura di Tony Blair: "un accordo
non si troverà per stasera", avrebbe detto.
Da qui il rammarico di Juncker, alla constatazione di un’Europa indebolita
e frammentaria, oggetto di manovre utilitaristiche e giochi politici; incapace
di darsi un bilancio, e arrivata al punto in cui, per evitare il peggio, è
costretta a rifugiarsi nei “cugini poveri” dell’Est, la cui
generosa rinuncia non ha compromesso le ruvide prese di posizione dei "ricchi"
di turno.
"Il mio entusiasmo per l'Europa ha subito oggi uno shock profondo",
ha detto il premier lussemburghese.
Quindici ore di trattativa per sbloccare un’intesa sul bilancio prima
di gettare la spugna, pur se la differenza tra la proposta del vertice e l’eventuale
accordo futuri è "millimetrica", precisa Juncker; che ha annunciato
che giovedì prossimo, a Strasburgo, non assisterà alla presentazione
davanti al Parlamento europeo del programma del semestre di presidenza britannica,
perché il 23 giugno è festa nazionale, nel Granducato.
"Non è un bel giorno per l'Europa, si è perso un pezzo dell'unione
politica", ha commentato con il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder,
precisando che “un’intesa avrebbe potuto inviare un segnale importante
riguardo la capacità dell’Ue di agire”. Sulla stessa linea
il presidente francese Jacques Chirac, che s’è rammaricato del
fatto che Londra abbia insistito per mantenere lo sconto sul contributo Ue,
negoziato da Margaret Thatcher; sul quale Jack Straw, ministro degli Esteri
inglese, ha le idee chiare. "Il solo modo per risolvere le attuali disparità
nei contributi degli stati membri – ha affermato - passa per una profonda
revisione delle spese Ue non certo per la cancellazione dello sconto britannico,
che non sarà comunque accettata".
E l’Italia? E’ tra quelli che più patiscono questi continui
"balletti", europei. Ogni passo indietro verso una maggior coesione,
è un indebolimento del prestigio e dell’iniziativa di un paese
che su Euro e Europa ha investito molto, al di là delle pittoresche e
controproducenti marce da dietrofront leghiste. Accanto ai due secchi no (costituzione
e bilancio), l’Italia soffre per una posizione deficitaria che le manfrine
berlusconiane faticheranno a sdrammatizzare. L’apertura di una procedura
per deficit, lanciata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia
non dovrebbero andar viste semplicemente come un "aiuto dato ai governi"
per iniziative richieste dall’Europa, come ha commentato il premier di
Arcore. Ma come un segnale critico di un cammino da gamberi che il governo compie
in un’Europa già di per sé ferma.