ACQUA
BENE COMUNE:
storia, civiltà, vita
Facoltà di scienze politiche
12
marzo 2009
Intervento Paolo Rumiz (giornalista di la Repubblica)
E’
un peccato che non possa parlarvi a voce.
Solo a voce avrei potuto comunicarvi l’urgenza, la rabbia e l’indignazione
legate al tema primordiale dell’acqua.
Sono un professionista della parola scritta, ma so che solo il racconto orale
sa trasmettere sentimenti forti.
Questo scritto è dunque solo un ripiegamento, dovuto a forza maggiore.
E sappiate che gli uomini che avrei dovuto affiancare in quest’incontro
sono i responsabili della mia passione per la questione idrica.
Dunque perfetti per accendere anche la vostra.
Mi sono occupato di molti temi nel mio mestiere.
Guerre etniche e planetarie, crolli di sistemi e di alleanze politiche, esplorazione
dei territori e viaggi alle periferie del mondo.
All’acqua sono arrivato solo pochi mesi fa, quasi per caso, grazie a
una segnalazione di Emilio Molinari.
Era successo che era stata approvata una legge che rendeva inevitabile la
privatizzazione dei servizi idrici.
La svendita di un patrimonio comune, mascherata da rivoluzione efficentista.
Tutto questo era avvenuto nel mese di agosto, alla chetichella, senza proteste
da parte dell’opposizione.
Il popolo era rimasto tagliato fuori da tutto. Gli interessi attorno all’operazione
erano così trasversali che i giornali avevano taciuto, i partiti e
i sindacati pure.
Mi sembrava inverosimile che una simile enormità potesse passare sotto
silenzio. Così ne ho scritto. E la pioggia di lettere attonite che
ho ricevuto in risposta hanno confermato l’assunto.
L’Italia non ne sapeva niente.
Non entro nello specifico di questa scandalosa ruberia inflitta agli italiani.
Altri lo faranno meglio di me.
Dico solo che occupandomene, dopo 35 anni di mestiere, ho provato lo stesso
brivido della guerra dei Balcani.
Come allora, ho avuto la certezza che cadesse un sipario di bugie, e si svelasse
la verità nuda di una rapina ai danni del Paese e dei suoi abitanti,
l’ultimo assalto a un territorio già sfiancato dalle mafie, dalle
tangenti e dalla dilapidazione del bene comune.
Pensiamoci
un attimo.
I giornali pompano mille emergenze minori per non farci vedere quelle realmente
importanti.
La tensione etnica aumenta. Ci parlano di clandestini, di rumeni stupratori,
di terroristi annidati nelle moschee.
Ci infliggono ronde per tenere testa a una criminalità che - stranamente
- non include la camorra, la speculazione edilizia o lo strapotere degli ultras.
Televisione, telefonini. I-pod costruiscono una cortina fumogena che incoraggia
il singolo ad arraffare e impedisce al gruppo di reagire.
E’
così evidente. Noi non dobbiamo sapere che esiste un’altra e
più grave emergenza: la distruzione del territorio.
Un’emergenza così grave che la lingua dell’economia non
basta più a descriverla.
Oggi serve la lingua del Pentateuco, o dell’Apocalisse di Giovanni,
perché viviamo un momento biblico.
“E verrà il giorno in cui le campagne si desertificheranno e
la boscaglia invaderà ogni cosa, i ghiacciai entreranno in agonia e
l’aria diverrà veleno. Il tempo in cui la natura sarà
offesa nelle sue parti più vulnerabili”.
Se i nostri padri ci avessero fatto una simile profezia non li avremmo creduti.
Invece succede.
Siamo in guerra. Una guerra contro i territori. In Italia è iniziata
la guerra per l’accaparramento delle ultime risorse.
Sta
già avvenendo:
Cementificazione dei parchi naturali
Requisizione delle sorgenti
Privatizzazione dell’acqua pubblica
Discariche e inceneritori negli spazi più incontaminati del Paese
Ritorno al nucleare
Grandi opere imposte con la militarizzazione dei territori e la distruzione
di interi habitat
Fiumi già in agonia, disseminati di ulteriori centrali idroelettriche
Impianti eolici che stanno cambiando i connotati all’Appennino
Tutto
conduce su questa strada:
La ricorrente invocazione di poteri forti ai danni del parlamento
Il fallimento del pubblico e l’invadenza del privato
La sottrazione delle risorse ai Comuni
Lo smantellamento della democrazia diretta
La corsa a un federalismo irresponsabile che assomiglia tanto a una licenza
di sperpero
La deregulation legislativa
La crisi della scuola e delle università
La visione speculativa e finanziaria dell’economia
E’
come negli anni Trenta: crisi del capitalismo, opposizione inesistente, criminalità
diffusa. Ma con in più (e in peggio) la desertificazione dei territori,
lo spopolamento della montagna.
Il “Paese profondo” si è talmente indebolito che oggi l’atteggiamento
predatorio che abbiamo rivolto prima verso la Libia o l’Etiopia e poi
verso l’Est Europa, può essere rivolto verso l’Italia medesima
senza il rischio di una rivoluzione.
Anche noi diventiamo discarica, miniera, piantagione.
E anche da noi i territori deboli sono lasciati completamente soli di fronte
ai poteri forti. Come le tribù centro-africane.
Guardate
cosa succede con l’eolico.
Gli emissari di una multinazionale dell’energia si presentano a un comune
di cinquecento-mille abitanti.
Offrono centomila euro l’anno per due o tre pale eoliche alte come grattacieli
di trenta piani.
Il sindaco al verde non ha alternative. Accetta. Per lui quelle pale sono
il solo modo per pagare l’illuminazione pubblica e gli impiegati.
La Regione e lo Stato non intervengono. In nome dell’emergenza energetica
passano sopra a tutto, anche a un bene primario come il paesaggio.
Risultato? Oggi la rete eolica italiana non è il risultato di un piano
ma del caso. Segna come le pustole del morbillo i territori deboli, incapaci
di contrattare.
Con
l’acqua la situazione è ancora più limpida.
Vi racconto cose che ho visto personalmente.
Qualche scena, capace di illuminare il tutto.
Alta
Val di Taro.
C’è una fabbrica di acque minerali che succhia dalle falde appenniniche
in modo così potente che nei momenti di siccità gli abitanti
del paese – noto fino a ieri per le sue fonti terapeutiche e oggi semi
abbandonato – restano senz’acqua nelle condutture pubbliche.
C’è una protesta ma il sindaco tranquillizza tutti in consiglio
comunale. “Non abbiate paura – dice – quando mancherà
la NOSTRA acqua, la fabbrica pomperà la SUA nei nostri tubi”.
L’acqua del paese è data già per persa, requisita dai
padroni delle minerali. L’idea che si tratti di un bene pubblico e prioritario
non sfiora né il sindaco né la popolazione rassegnata.
Recoaro,
provincia di Vicenza.
Una pattuglia di “tecnici dell’acqua” (così si presentano),
fanno visita a una vecchia che vive sola in una frazione di montagna. Le chiedono
di poter fare delle verifiche alle falde. La donna pensa che siano del Comune.
Il lavoro dura un mese. I tecnici trivellano, trovano acqua. Poi chiudono
il pozzo aperto con dei sigilli. A distanza di mesi si scopre che la fabbrica
di acque minerali giù in valle sta facendo un censimento delle fonti
potabili in quota, in vista della grande sete prossima ventura della Terra
in riscaldamento climatico.
I parenti della donna si accorgono del maltolto e sporgono denuncia. Scoprono
di essersi mossi appena in tempo per evitare l’usocapione del pozzo.
Il sindaco tace. Gli abitanti di Recoaro pure. Ciascuno vende le sue fonti
in separata sede.
Castel
Juval, in val Venosta.
Qui potete fare le vostre verifiche da soli. Vi sedete al ristorante dell’agriturismo
di Reinhold Messner e chiedete dell’acqua. Scoprirete di avere due opzioni.
L’acqua minerale – la notissima acqua propagandata dall’alpinista
sud-tirolese – e l’acqua di fonte. La fonte di Reinhold Messner.
Ebbene, anche questa è a pagamento. Metà prezzo rispetto a quella
in bottiglia, ma anch’essa a pagamento. E la gente beve, estasiata.
Vedere per credere.
Che
dire? Come gli abitanti della Somalia o del Mali, siamo disposti a pagare
ciò che ci sarebbe dovuto gratuitamente.
Abbiamo rinunciato a considerare l’acqua come pubblico bene.
La nostra sconfitta, prima che economica, è culturale.
La grande vittoria del secolo scorso fu l’acqua nelle case. Oggi abbiamo
accettato di tornare indietro.
Siamo ridiventati portatori d’acqua. Come gli etiopi, arranchiamo per
le strade con carichi inverosimili d’acqua e non riflettiamo che il
valore reale della medesima è appena un centesimo del costo della bottiglia.
Meno del costo della colla necessaria a fissare l’etichetta.
Il
dramma non è solo lo scempio delle risorse, ma la nostre insensibilità
alla rapina in atto.
Abbiamo accettato di farci derubare. Siamo un popolo rassegnato, e i signori
delle risorse lo sanno perfettamente.
Il dossier di un’azienda multinazionale finlandese descrive così
una regione italiana del centro: “facilità di penetrazione, costi
d’insediamento minimi, zero conflittualità sociale”. Soprattutto,
“poche obiezioni ecologiche”.
Sembra il Congo, invece è Italia.
Grazie
di avermi ascoltato
Paolo Rumiz