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FIABE

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Tobia ed Alì

 In un villaggio di pescatori abitavano Tobia e il suo pappagallo Alì. La loro casa era in riva al mare. Tobia era un bambino che non aveva giocattoli né amici della sua età. Giocava con Alì tutto il giorno mentre sua madre e suo padre erano fuori di casa per lavoro. Con Tobia e con Alì qualche volta c’era il nonno che però spesso usciva in mare con una sua barchetta. Una sera  Tobia aspettava che suo nonno tornasse dalla pesca e vide uno spicchio di luna riflessa sulle onde del mare.
“Voglio la luna!” disse il bambino.
“Voglio la luna, voglio la luna, voglio la luna!” ripetè il pappagallo.
“Come faccio a prenderla?”
“Come faccio, come faccio?” ripetè il pappagallo.
“Appena torna il nonno, gli chiedo di portarmi sulla barca a prendere la luna” disse Tobia.
Quella sera il bambino, impaziente di afferrare il suo pezzettino di luna non mangiò la torta al formaggio che la mamma gli aveva lasciato prima di uscire. Attese per lungo tempo osservando le onde del mare e temendo che la luna scomparisse.
Finalmente il nonno giunse con la sua barca colma di pesce, contento della sua abbondante pesca ma molto stanco. Tobia gli corse incontro e raccontadogli che aveva visto lo spicchio di luna lo implorò di condurlo con la barchetta sulle onde, in mezzo al mare, a raccogliere la luna.
Il nonno non volle deluderlo e rimandò tutto alla mattina seguente.
Durante la notte Tobia rimase sveglio per l’emozione immaginando di giocare con la luna d’argento 
e di riporla poi in un angolo della sua stanza, o forse di lasciarla attaccata al lampadario.Trascorse così la notte fantasticando e finalmente vide sorgere l’alba. Ma proprio in quel momento il pappagallo picchiò col becco sui vetri della finestra per avvisarlo che la luna era sparita.
“No, non è vero!” strillò Tobia tra le lacrime.
“No, non è vero, non è vero, non è vero!”, replicò Alì.
“Nonno, nonno, la luna non c’è più!” disse Tobia andando a cercarlo nel suo letto.
Il nonno però era  già uscito per la solita giornata di pesca e Tobia uscì di casa. Andò in riva al mare e visto che davvero la luna non c’era più si mise a piangere e restò ad aspettare il nonno fino a sera.
Mangiò un pezzo di pane con la marmellata e la torta al formaggio del giorno prima. Non si mosse 
però dalla sua posizione perché sperava in cuor suo che la luna tornasse a poggiarsi sulle onde. 
Con gli occhi fissi guardava lontano. Sperava di vedere tornare il nonno e desiderava tanto che il pezzetto di luna ricomparisse.
Finalmente verso sera vide  uno spicchio argentato galleggiare sulle onde.
“Eccola, eccola! Alì 
corri!”
“Eccola, eccola, eccola!” disse il pappagallo.
“Ti prego Alì, prendimela tu che puoi volare sopra le onde!” supplicò Tobia.
“Ma come faccio?” rispose Alì.
“Vai e prendila col tuo becco!”
Alì volò fino al punto in cui la luna si rispecchiava sulle onde, si precipitò col becco aperto per poterla afferrare. Non ci riuscì e riprovò. Tentò e ritentò decine di volte. Cadde nell’acqua, bevve, rischiò di annegare. Un’onda lo sommerse, poi riuscì a ripendere il volo e tornò desolato dal suo amico Tobia.
A quel punto tornava il nonno dalla pesca. Mise a posto la barca e si accorse che Tobia ed Alì erano tristi perché non erano riusciti a prendere la luna. Allora decise di spiegare che cosa è la luna al suo piccolo nipote. “Vedi Tobia”, disse, “la luna è come la lampadina che illumina la tua stanza, solo che la luna illumina il mondo intero. Tutto il mare, i villaggi, le case che si trovano lontani da qui sono illuminati dalla luna. La lampada che schiarisce la tua stanza puoi toccarla perché è piccola e vicina, la luna invece è grande e lontana. La lampada è tua, la luna è di tutti perché illumina il mondo. Non puoi prenderla però puoi ammirarla sempre…”
“Davvero nonno posso ammirarla altre volte? Nessuno la porterà via?”
“Ma certo Tobia”, rispose il nonno,”puoi ammirarla tu, tutti i bimbi del mondo e pure Alì perché la luna è lontana ma sta pure qui. Hai capito Tobia, hai capito Alì?”
“Hai capito Tobia, hai capito Alì? La luna è lontana, la luna è qui!” disse il pappagallo e volò sul lampadario della stanza da dove ripetè “Hai capito Alì? La luna è lontana la una è qui”..

Margherita Farfa
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 Mario e Maria

 Erano fratello e sorella gemelli. Avevano cinque anni e vivevano in una  casetta in mezzo al bosco. Sapete la loro casa era stata un tempo la casa di Cappuccetto rosso e ancora c’erano in cucina il cestino di vimini con cui la bambina dal mantello rosso portava le focacce alla nonna.
Il lupo cattivo non viveva più da quelle parti e neppure il cacciatore. Però ai limiti del bosco c’era un bellissimo lago azzurro in cui Mario e Maria andavano a nuotare. Andavano insieme alla loro nonna che mentre i bimbi giocavano nell’acqua stava seduta a ricamare bellissimi centrini per la loro casetta. La nonna dei gemelli per fortuna non era ammalata come quella di Cappuccetto rosso ed era molto allegra. Insegnava loro a cantare e li faceva ridere con le storie buffe che spesso raccontava.
Un giorno, tutti e tre stavano proprio in riva al lago quando videro un enorme pesce bianco che si avvicinava. “Tornate bambini!” disse la nonna temendo che il pesce fosse di quelli cattivi che possono far male ai bambini. “Tornate, presto!”
Mario e Maria uscirono dall’acqua e si strinsero alla nonna spaventati.
Il pesce bianco si avvicinò alla riva e li osservò. Aveva gli occhi rotondi, non sembrava cattivo e quando un’ondata lo spinse vicinissimo a loro tre grido': “Aiuto, aiuto!”
Ma i bambini non si mossero e la nonna li strinse forte cercando di capire perché il pesce bianco chiedeva aiuto. Dopo un po' la nonna si accorse che il pesce aveva quasi smesso di muoversi e pensò che forse davvero era necessario aiutarlo. Si avvicinò e chiese: 
“Perché non nuoti?”
“Sto soffocando” rispose il pesce,  “Ho ingoiato una busta di plastica”, spiegò con un filo di voce.
La nonna allora lo osservò bene e vide che davvero un pezzetto di plastica fuoriusciva dalla bocca del pesce.
“Presto, Mario, Maria, aiutatemi a salvare il pesce!”
“Che dobbiamo fare nonna?” chiese Mario.
“Mentre io terrò aperta la sua bocca voi estraete la busta”.
Così fecero i bambini e subito una vecchia busta, di quelle date nei supermercati, fu tirata via dalla bocca del grande pesce bianco  che dopo un po' si riprese e nuotò verso il centro del lago. Prima di andarsene ringraziò Mario, Maria e la nonna. La busta di plastica fu buttata dalla nonna nel secchione.

Margherita Farfa
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SPIRINGRILLO

 Lo chiamavano tutti spiringrillo perché saltava sempre come un grillo. Il suo vero nome era Antonio da quando era nato in una casa sulla riva del Tevere, il fiume che attraversa Roma. Antonio era un bambino molto vivace di sei anni. Andava a scuola insieme ai bambini del suo quartiere ed ogni mattina si preparava felice di salire sullo scuolabus, di incontrare i suoi compagni e organizzare insieme a loro i giochi da fare ogni pomeriggio dopo aver finito i compiti. Antonio saltava tra i banchi di scuola, saltava in cortile durante la ricreazione, saltava sulle scale per uscire dalla scuola.
"Attento Antonio che potresti cadere!", gli diceva la maestra. 
"Fa' attenzione che potresti farti male!" gli raccomandava sua madre. Ma Antonio non prestava attenzione ai consigli di sua madre, né alle raccomandazioni della maestra e continuava a correre e saltare in ogni luogo.
Suo padre ogni sera vedendo che aveva spesso le ginocchia sbucciate, o notando delle piccole ferite sulle gambe e sulle mani gli ripeteva che è possibile correre e saltare quando si gioca sull'erba, quando si sta in riva al mare, quando si va in palestra; ma occorre stare attenti a non cadere dove ci sono superfici dure o sporgenze pericolose. Spiringrillo però non prestava molta attenzione a queste parole.
Un giorno mentre il bambino usciva di scuola per andare a casa, saltellava come al solito su una e sull'altra gamba e scendeva in questo modo dalle scale. Accadde però che il piede che aveva appoggiato sul gradino scivolò e Spiringrillo ruzzolò dalle scale.
"Aiuto, mi fa male la testa!", gridò il bambino.
La maestra, i compagni andarono vicino a lui e lo aiutarono ad alzarsi. Chiamarono un dottore che volle portare il piccolo Antonio in ospedale. Lì gli altri medici lo visitarono e gli fasciarono la testa. Gli fecero bere una medicina e lo tennero a riposo per molti giorni.
"Come ti chiami?" Gli chiedevano le infermiere che dovevano occuparsi di lui.
"Spiringrillo", rispondeva Antonio.
"Che nome buffo!"
"Spiringrillo. Mi chiamo Spiringrillo perché salto come un grillo".
"Salti come un grillo e ti chiami Spiringrillo?"
"Si. Salto come un grillo e mi sono fatto male alla testa"
"Perché non hai giudizio, non sei assennato!" disse il dottore che lo aveva in cura.
"Allora non debbo più correre e saltare?" chiese il bambino.
"Devi correre, devi giocare", rispose la sua mamma che lì in ospedale le stava sempre vicina". Devi anche saltare ma stare attento a non farlo nei posti dove cadendo puoi farti male. Non si salta sulle scale, né in classe, né sui marciapedi della strada".
"E allora dove salto?" chiese Spiringrillo.
"In palestra, sulla spiaggia, sul prato."
"Allora sarò assennato e salterò solo sul prato!".
"Bravo!" rispose sua madre, e gli sorrise mentre gli rimboccava le coperte.

Luigi Lenzi
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LA MAMMA DI CERA

 Carolina era una bambina bionda piccolissima. Aveva è vero sette anni ma era alta un palmo e poteva nascondersi nella tasca di mamma e papà quando andavano a passeggio. Suo padre lavorava come custode in una fabbrica di automobili, sua madre era una cuoca e Carolina spesso andava insieme a lei ad osservare tutto il lavoro che la donna svolgeva.
La bambina si affacciava da una tasca che la madre aveva sul grembiule da lavoro, oppure sedeva sul tavolo della cucina a cantare canzoncine mentre la sua mamma sbucciava patate o friggeva cotolette per i clienti di una trattoria. 
La bambina era anche in grado di rendersi molto utile perché aiutava la madre in tanti piccoli modi. Per esempio cercando i sassolini tra le lenticchie da cuocere o grattugiando il formaggio.
Così Carolina imparò l'arte del ben cucinare e ogni tanto provava a realizzare da sola delle buone pietanze. 
Il principale non entrava mai in cucina perché era allergico al fumo. Stava alla cassa della trattoria e osservava la cuoca attraverso una grande vetrata che divideva i due locali.
Un giorno la cuoca si ammalò per una brutta bronchite e non poté andare a lavorare per lungo tempo. Il suo principale minacciò di licenziarla e di assumere un'altra persona al suo posto se non si fosse ripresentata a cucinare per i suoi clienti. Così la donna tornò a lavorare, riprese a friggere e cuocere, ma era ammalata e stanca; aveva la febbre e non resisteva tanto tempo in piedi. Carolina allora ebbe un'idea. Pensò di farsi fare una donna di cera dal papà di un suo amico che fabbricava candele. 
Dal giorno dopo il principale non protestò più per l'assenza della cuoca. Vedeva la sagoma della donna attraverso i vetri e osservava i camerieri uscire dalla cucina con le patatine fritte, le cotolette, i risotti che i clienti gradivano molto. Nessuno andò a dirgli che in verità in cucina non c'era la cuoca ma una pupazza di cera con i vestiti della madre di Carolina. La piccola fu bravissima e ogni giorno cucinò con grande abilità. Stava tra le padelle e le pentole che i camerieri spostavano quando lei lo chiedeva e che scolavano la pasta e compivano tutti i lavori pesanti che la piccola non poteva fare. Il principale fu così soddisfatto di come cucinava la piccola Carolina che volle dare un aumento di stipendio alla cuoca. Andò in cucina per dirglielo e restò sbalordito alla vista della donna di cera. 
"Che succede?", chiese. "Dov'é la cuoca?"
Carolina che stava passando in padella una frittata si spaventò e piangendo disse: "Non devi licenziare la mia mamma. Ci sono io al suo posto fino a quando guarirà!"
"Come?", disse il principale, "Tu così piccola che mandi avanti la cucina del mio ristorante?"
"Solo per un po'. Solo per qualche giorno. Poi la mia mamma tornerà. Ti prego, non mandarla via!" Disse Carolina mentre grosse lacrime cadevano dentro le pappardelle al sugo di lepre.
Il principale restò in silenzio. Si commosse. Tossì e poi disse: "Mi vergogno per aver rimproverato la tua mamma, mi vergogno per aver minacciato di licenziarla e ancor più mi vergogno di aver costretto una piccola bambina a svolgere un duro lavoro. I bambini non devono lavorare!".
"Per me è un gioco!", rispose Carolina e portò al principale una porzione di frittelle al miele che aveva da poco fritto.
Il principale ne assaggiò una. Si leccò i baffi e tornò alla cassa. Poi mandò in cucina tutti i camerieri che aveva a disposizione affinché aiutassero la bambina. "Fate tutto il possibile", disse loro, "non voglio che Carolina si stanchi. I bambini non devono lavorare!"
Quando la madre di Carolina guarì, tornò in cucina e si accorse che il suo principale era diventato più bravo. Non minacciò più di licenziarla. 

Ileana Lolli
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LA PINETA TRISTE

 La famiglia di Fabio era davvero una gran bella famiglia. Oltre al papà e la mamma Fabio aveva quattro fratelli e due sorelle: Carlo, Pasquale, Renato, Giuseppe, Viviana e Lucia. Erano quindi nove persone in tutto. Una famiglia allegra e felice. Il babbo faceva il meccanico, la madre era casalinga, i bimbi andavano tutti a scuola. Di cognome si chiamavano Benvenuti.
Ogni domenica la famiglia Benvenuti andava in pineta. Era molto divertente. La mamma portava una grossa cesta con tutte le cibarie: timballo, uova sode, salumi, crostate, frutta, panini e salsicce da cuocere sulla brace. 
La pineta di Ostia è una delle più belle d'Italia. Sta vicino al mare, vicino al fiume Tevere ed ha tanti luoghi da vedere perché ricordano il passato. Sono case antiche, monumenti, statue, oggetti che erano appartenuti agli antichi romani. 
Questa bellissima pineta è a disposizione della famiglia Benvenuti, ma anche a disposizione di ogni famiglia che vuole trascorrere la domenica all'aria aperta, facendo il picnic o riposando dopo una nuotata al mare.
La famiglia Benvenuti una domenica si recò in pineta con l'intenzione di raccogliere funghi. Il babbo aprì un ombrellone e poi si inoltrò tra i boschi con i figli più grandi in cerca di funghi, mentre la mamma preparava i panini e i bambini più piccoli giocavano con la palla.
Dopo due ore papà benvenuti tornò con la busta di plastica piena di funghi. Non li conosceva ma era passato dall'ufficiale sanitario che gli disse di buttare quelli velenosi e di tenerne solo due. I soli due che erano commestibili.
Così il papà mise in un tegame i due funghi buoni e poi buttò il resto con tutta la busta sotto ad un grosso pino che faceva loro ombra.
Dopo aver fatto il picnic, i bambini chiesero alla mamma che gli comprasse il gelato dal chiosco bar che era nelle vicinanze. La mamma comprò i gelati per tutti e una lattina di birra per il papà. I bambini li mangiarono, il papà bevve e alla fine buttò a terra la lattina. I bambini naturalmente buttarono le carte dei gelati. Le sette carte dei sette gelati. Perché se ricordate erano sette i figli della famiglia Benvenuti. Così anche la mamma sparecchiò il tavolino da pic-nic e buttò a terra i bicchieri di carta, i tovaglioli, i piatti e le bottiglie di acqua minerale. Poi tornarono a casa.
Dopo un mese la famiglia tornò in pineta e al posto del verde prato trovò tante cartacce e buste di plastica che coprivano ogni piccolo posto. Non si sapeva davvero dove fare  il pic-nic. Allora si spostarono in cerca di un luogo pulito. Lo trovarono con molta fatica. Era uno spiazzo erboso vicino al fiume. Contenti iniziarono a giocare mentre il babbo riposava sul plaid e la mamma leggeva.
Poco lontano un'altra famiglia dove c'erano pure un nonno e una nonna stava in riva al fiume pescando. Il nonno era simpaticissimo e raccontava tante storie ai bambini più piccoli.
Le due famiglie fecero amicizia e si riunirono per il pranzo. La lasagna della nonna era davvero squisita, ma anche la torta Pasqualina della signora Benvenuti. Il vino poi era di quello dei Castelli romani e ce n'era un'intera damigiana che gli uomini bevvero fino a quando finì l'ultima goccia e la damigiana vuota andò a finire tra i rovi di una pianta di more. Il resto dei rifiuti invece fu buttato sul prato. Quando la famiglia andò via restarono in pineta i segni del loro passaggio: cinque buste di plastica, una trentina di piatti e bicchieri di carta, tovaglioli, tappi di bottiglie e lattine. Insomma non mancava nulla. Le due famiglie tornarono a casa.
La domenica seguente Carlo, Viviana, Lucia , Fabio, Pasquale, Giuseppe e Renato tornarono felici in pineta. Avevano delle racchette nuove e non vedevano l'ora di provarle. Andarono nel solito posto e rimasero molto male accorgendosi che tantissimi piatti di plastica coprivano il prato. E poi buste, cartacce, bottiglie, lattine, ingombravano ogni spazio. Si allontanarono e vagarono per la grande pineta cercando un posto pulito per fare il pic-nic. Non ebbero però fortuna. Trovarono un vecchio w.c. tra due piante di corbezzolo, una  batteria d'automobile sotto una quercia, un sedile di motocicletta, e tantissime buste di plastica. Sconsolati andarono a fare merenda sulla spiaggia. "La gente la deve smettere di sporcare la pineta!", dissero mentre gustavano l'ottima pizza che la mamma aveva cotto al forno di casa. "Sì è un'indecenza!" disse papà Benvenuti bevendo un bicchiere di chinotto. "Giusto!", confermò Carlo e dopo essersi pulita la bocca buttò il tovagliolo di carta sulla sabbia. Il babbo non se ne accorse perché stava fumando pensieroso mentre la mamma cambiava le batterie alla radiolina transistor. Naturalmente sia le pile scariche che i mozziconi di sigarette finirono sulla sabbia. E restarono in buona compagnia della busta dei rifiuti del pranzo.
All' imbrunire la famiglia Benvenuti raccolse le sue cose per andarsene. Presero l'ombrellone, le borse, le sedie pieghevoli e si allontanarono. 
Dopo un po' sentirono che qualcuno gridava:
"Signore!.. Signora!"
Si voltarono e videro un bambino alto un soldo di cacio che correva per raggiungerli. Aveva qualcosa in mano e diceva:
"Avete dimenticato questo!"
La famiglia Benvenuti lo osservava. Mamma e papà si fermarono. Pasquale chiese:"Che dice?"
"Dice che abbiamo dimenticato qualcosa", rispose Renato.
"Fermi! Aspettate!" gridava ancora il bambino che faticava a portare quella cosa che loro avevano dimenticato. I suoi piedi affondavano nella sabbia e ogni tanto si fermava per riprendere fiato.
"Che cosa ci porta?" chiese mamma Benvenuti.
"Boh!", rispose il babbo.
Finalmente quel bambino sconosciuto arrivò. Gli porse una busta piena e disse:
"Avete dimenticato questo. E' roba vostra!"
Papà Benvenuti la prese, l'aprì e fece una smorfia per il disgusto.
"Stupido bambino!", disse, "Questa è solo immondizia!"
"Si, ma è vostra!", rispose il soldo di cacio.
"E no! Adesso è di chi la raccoglie!" rispose la mamma.
"Chi la raccoglie, ma'?", domandò Renato.
"Chi la raccoglie?" , chiese anche Giuseppe.
"Nessuno!", disse il bambino. "Portatela via sporcaccioni. La spiaggia è di tutti e noi bambini la vogliamo pulita. Portate via la vostra immondizia!".
"Allora anche la pineta è di tutti?", chiese Viviana.
"Sì", disse Fabio. Poi aggiunse:"Mamma, papà, dobbiamo portare via i rifiuti perché il mare, la pineta sono di tutti. Noi bambini dobbiamo giocare sul pulito.". Fabio prese il suo sacchetto di immondizia e non lo lasciò fino a quando non vide un cassone in cui buttarlo.
Papà e mamma Benvenuti non dissero nulla, ma si vergognarono perché la lezione fece capire loro che bisogna rispettare i luoghi di tutti. Specialmente quelli dove i bambini vanno a giocare.
Mamma e papà Benvenuti tornarono a casa tristi perché capirono di aver sbagliato. Però non avevano colpa. Nessuno aveva insegnato loro l'educazione.
Da quel giorno la famiglia Benvenuti imparò e insegnò anche agli altri. La pineta fu sempre più bella e pulita.

Luigi Lenzi
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